C’è una porta dentro di me che tengo ben chiusa. Non è di dolore che vi parlerò oggi, non direttamente almeno, lui potrebbe far capolino nel discorso insieme ad una miriade di altri sentimenti, ma di una stanza che trova il suo posto proprio nella mia testa. Come fosse una maestosa libreria raccoglie sapientemente tutta la mole di documenti che raccontano la mia storia clinica. Uno zaino bianco e rosso per raccoglierli materialmente, idealmente invece centinaia di fogli appesi su di un filo, dove annodo consapevolezze, nuove verità, paure e dubbi. È una storia lunga la mia, complessa, rara tra le rare. Cartelle cliniche, consulenze, indagini strumentali, note a margine e relazioni conclusive. Su quel filo, sopra quei fogli appesi, ci sono io. In equilibrio, come un equilibrista, accompagnata dal timore di poter cadere giù percorro ogni giorno la mia fune in punta di piedi. Sono trascorsi 13 anni da quel primo verbale di pronto soccorso, ma cercando bene le tracce della malattia erano già visibili fin da bambina, piccole sfumature che non sembravano avere un peso, che non si pensava sarebbero diventate l’origine di un quadro raro. Quella porta ieri l’ho aperta, ho dovuto farlo, dovevo prepare il terreno per quella che oggi rappresenterà l’ennesima consulenza imposta dagli eventi. C’era davvero una gran confusione. Nei periodi più cattivi quello zaino è la copia esatta della me che non vuole far ordine, che non vuole fare a pugni con una realtà così insidiosa. Tutto si mischia, si confonde, e quella parte di me che odia rileggere più di una volta quei referti appena scritti si sente protetta, forte di poter continuare a ignorare quel tutto che a prestarci la dovuta attenzione racconterebbe di un dolore profondo. Le mie visite, i miei controlli, ogni mio confronto coi medici che incontro o che mi seguono costantemente è fatto di battute concise, di risposte chiare e nette, di monitor che chiedo di girare e osservare insieme. Una volta a casa non mi serve perdermi tra quelle parole scritte nero su bianco, quelle immagini non voglio imprimerle nella mia mente. In passato accadava sempre, potevo dire dove si trovan le virgole, dove le frasi si chiudevano in un punto e il discorso proseguiva daccapo. E puntualmente la parte di me ribelle, quella che ancora si rifiutava di accettare soffriva. Volevo sentirmi pronta, volevo dimostrare a tutti di essere forte, ma non sapevo davvero come fare. Venne il giorno in cui capì di dover lasciare che la malattia prendesse il posto che rivendica. E così ho accettato. Con il tempo ho imparato a intrappolare quelle stesse parole, quelle immagini, ed ogni suono che le accompagnava dentro quelle mura. Le mura di un ospedale oggi fanno da scudo alla parte più fragile di me. Tra quei corridoi ho imparato ad esternare ogni mio più piccolo sentimento. Ma fuori, lontana da quei corridoi, lascio che il peso cattivo della mia rarità resti appeso su quel filo, sotto i miei piedi. Certo è che il far ordine produce sempre un grande scossone e ammetto che l’equilibrio arrivo a perderlo se abbassando gli occhi torno a rileggere quelle parole, ma dura un attimo. In quell’attimo lo stomaco si stringe, il respiro si fa pesante e tutto mi sembra troppo. Troppo crudo, troppo ingiusto, irreale e disgustoso. Arrivo a chiedermi se tutti quei documenti appartengano davvero a me. Portano il mio nome, la mia data di nascita, alcuni fogli perfino la mia firma eppure a volte li guardo come se non mi appartenessero. Chi vorrebbe veder sconvolti gli anni migliori della propria vita dalla malattia, chi vorrebbe intraprendere una ricerca affannosa pur di avere anche solo una piccola certezza? Nessuno! In quello zaino, appesi a quel filo non ci sono solo dei semplici fogli, lì appesa c’è la mia vita nella sua parte più cruda. Ci sono notti trascorse lontano da casa, panchine trasformate in rifugi, stazioni, sorrisi sporcati di lacrime. Nascosta tra quelle righe c’è tutta la mia voglia di vivere, che seppur vessata, schiacciata, mortificata non intende spegnersi. Continuerò instancabilmente ad avanzare su quel filo, e passo dopo passo schiaccerò con i miei piedi il dolore. In bilico, a piccoli passi continuerò a lottare per proteggere il mio equilibrio perchè la vita, quella vera, mi aspetta fuori da quelle mura e io voglio viverla.