Anche chi è forte sanguina


Parto proprio così, senza sapere cosa dire, cosa scrivere. Le parole costano, pesano, cercarle a volte fa’ male. E io non so bene che parole scegliere, non so quanto sia giusto dire e cosa sopratutto. So per certo che sono parole che non vorrei mai dire perchè sanno di tristezza, di dolore e hanno il sapore di qualcosa che fa’ male. Ed io, per indole, fuggo dalla tristezza, da ciò che ferisce, ma odio fingere, odio agghindare le realtà che vivo con una patina di perfezione che ora è lontana anni luce da ciò che sto vivendo e quindi proverò a trovar le parole giuste restando fedele a me stessa, al mio dolore. Vorrei con tutta me stessa che questa assurda spirale si arrestasse, che una ventata di aria buona spazzasse via tutto il male. Non è la mia anima a soffrire, quella saprei curarla, l’ho fatto mille volte e mille altre volte lo rifarò. È un altro il dolore che sto combattendo. È il dolore del corpo, quello fisico, quello che ti toglie il respiro, che annebbia la mente, che alza la temperatura corporea e aumenta i battiti del cuore. È quel dolore che non riesco a placare se non respirando, sforzandomi di portare la mente e il pensiero altrove. Io, solamente io, contro il mio corpo. Una sfida aperta, una lotta spietata. Nessun aiuto farmacologico, nessun analgesico. Negli anni ho imparato a tener testa a costole rotte, a nevralgie, a lussazioni, a strappi muscolari, a aure oftalmiche, a spasmi, a coliche, a infiammazioni di ogni sorta, a dolori cronici e ingravescenti. Non so dire come ci sia riuscita, se guardo al passato e ripenso davvero a tutto quello che il mio corpo ha affrontato e sopportato mi stupisco di esserne uscita, di non aver perso senno e ragione. Per anni un aiuto farmacologico ha rappresentato un rischio immenso per le gravi reazioni avverse alle quali sarei andata incontro, la riprova un anno fa con una reazione avversa ad un semplice test dose. Un accaduto che ha rafforzato dentro di me la convinzione di doverne fare a meno, di non dover nemmeno lontanamente pensare di fare ricorso a una terapia del dolore. A ciò aggiungo senza negarlo un mio personale rifiuto, ossia il testare un particolare tipo di farmaci, gli oppiacei. Una strada mai percorsa, che ho sempre categoricamente rifiutato e che in passato mi costò una perizia psichiatrica. Valutazione dalla quale però si evinse la mia assoluta sanità mentale e che certificò che il mio rifiuto era supportato da un sentire sano, che nulla aveva a che fare con la depressione o con una mia ipotetica volontà di arrendermi. Ero reattiva alla malattia, avevo una spiccata consapevolezza nell’affrontarne le sfide alle quali mi sottoponeva. Ero lucida e capace di trarre nuovi spunti dai quali ripartire da ogni limite che ero costretta ad affrontare. Capacità che oggi posso dire, senza peccare di presunzione, hanno maggiore forza e stabilità, che nel tempo sono cresciute, ma che oggi però sento come in pericolo. Un pericolo rappresentato da un corpo stanco, provato, vessato da prove che una dietro l’altra affronto da mesi e che sembrano susseguirsi in una spirale senza fine. E torniamo al punto. Torno a quelle parole che sembro incapace di trovare, che cozzano con la mia volontà. Una frase me le ha portate via, una frase detta con premura, con rispetto, con attenzione e delicatezza ma che mi ha obbligata a fermarmi, che mi ha costratta a guardarmi dentro. “Non è un segno di debolezza.” No, non sarei debole se accettassi un aiuto, non sarebbe sbagliato, non significherebbe smettere di lottare eppure per la prima volta non sono capace di scegliere. Non riesco a prendere una decisione. Chiudo gli occhi e cerco di pormi le domande giuste, di guardare alla realtà, ma ciò che sento è così maledettamente doloroso perchè dolorosa è la condizione in cui mi trovo. Mi sento vulnerabile, mi sento divisa. Il mio corpo mi chiede aiuto e la testa dice: “No, tu puoi!” Il mio corpo mi dice: “Basta!” e la mia testa risponde: “Spingi piu forte, insisti.” E io insisto, ci sto provando con tutte le mie forze, ma al mio corpo non basta più. È stanco, e ha tutte le ragioni di esserlo. Un intervento per impiantare un accesso centrale, una costola rotta, una contusione muscolare. E tutto in poche settimane. Un tutto che si è aggiunto al riacutizzarsi dei miei edemi, dove mi sono scontrata con le pesanti reazioni avverse di un accesso periferico che, nonostante oggi rappresenta ancora una garanzia, non ha più smesso di prudere, che è fonte di dolore costante. Dolore su dolore, fisici e non. Imput negativi contrastati da un’instancabile volontà a non volerla dar vinta alla parte di me malata. Ma la sola volontà davanti ad un accesso venoso centrale non basta. “Non è uno scherzo” ricordo anche questa di frase e ricordo il mio rispondere “Lo immagino”. No, cazzate, oggi posso dirlo, non è nemmeno lontanamente immaginabile. È un terremoto per il corpo e per l’anima. Uscita da quella sala però non è al mio animo che ho pensato, non ho potuto considerare i miei sentimenti, non ho pensato che avrei sofferto a vedere il mio corpo esposto. Ho dovuto concentrare tutte le mie forze sul dolore fisico che ho provato, che posso dire di aver subito, che mi ha vista crollare e rialzarmi forse con maggiore forza, più testarda e arrabbiata di prima, ma in un certo senso più stanca, come indebolita. Un dolore fisico che ho curato per l’ennesima volta con ghiaccio, respiri e lacrime. Ho pianto di dolore e di rabbia, ho pianto per una consapevolezza a cui sapevo di dover dar corpo ma che mi sembrava impossibile da costruire. Ma al dolore finisci col parlarci, per quanto sia forte, per quanto ti annienti, ci parli. Ed io davanti allo specchio una sera ho parlato al mio dolore. Ho accarazzato quello strano bottoncino sotto pelle, ho lasciato alle mie dita il permesso di scorrere sul mio braccio, su quell’altro dispositivo che è ancora dentro di me. Ho osservato il mio viso più magro e le mie occhiaie. Ho pianto e ho anche riso. Ho lasciato a me stessa il tempo di capire, di accettare e di dimenticare. Ma non posso più dimenticare o peggio ignorare un bisogno che ora è chiaro, palese. Devo dare una tregua al mio corpo, anche se mi spaventa, perchè lo merita, perchè la mia mente è niente se lui si arrende e io devo proteggerlo, devo proteggermi. Se avessi avuto un aiuto, quell’aiuto che continuo a rifiutare, mi sarei potuta occupare di me stessa, di quello che ho provato. Se avessi avuto più respiri avrei potuto cullare le mie paure, non avrei dovuto nasconderle, non mi sarei dovuta dimenticare dei miei sentimenti. E non voglio più farlo, non voglio più dimenticarmi di me stessa. Voglio lasciare alla scienza la possibilità di offrirmi una strada e alla mia mente il diritto di scegliere liberamente se accettare o meno quell’aiuto fino a oggi respinto se dovessi averne bisogno. Voglio sentirmi di nuovo un essere umano, senza sentirmi debole, senza esser giudicata. Voglio potermi svestire di tanto in tanto da quell’armatura da super eroe che ho dovuto indossare e non perchè pesi troppo ma perchè non posso più permetterle di schiacciare la mia parte umana, il mio involucro di donna. Io che ho deciso che più sarà difficile, tanto più lotterò. 


2 risposte a “Anche chi è forte sanguina”

  1. Lasciarsi andare ogni tanto non è un fallimento ma forza ,volontà e consapevolezza che in alcuni momenti si ha bisogno di chiedere un aiuto.Un bacio

    • Grazie a voi, alla vostra cura e alle vostre attenzioni sto costruendo questa nuova importante consapevolezza. Non sarei stata capace da sola di compiere questi passi. Vi sarò sempre grate di essere alleate in questo mio cammino che mai mi vedrà mollare. Questa è una promessa che devo a me stessa e a voi.

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