Dove il senso civico fallisce, la legge arriva ad imporre il rispetto.
La legge, madre di molteplici disposizioni atte a garantire l’ordine sociale, è spesso dimenticata e oscurata da sentimenti, proprii infondo dell’essere umano, se tale si vuol definire, che la rendono una misera regola di cui prendersi gioco. Come fosse un particolare accessorio e inutile, con il rischio di considerare inutile anche la disposizione in essa contenuta.
Talune leggi infatti non avrebbero necessità di esistere, presupponendo che l’uomo, in quanto essere pensante, capace di discernimento e di una propria personalità, intesa come parte vitale e spirituale, distinta dal corpo fisico, sia in grado di rispettare la libertà e la dignità dell’altro, in maniera naturale.
Questa “incapacità” diverrà terreno fertile per tutti quegli atteggiamenti, pericolosamente fautori di comportamenti di dubbio gusto, alla cui base risiederanno sentimenti discriminatori, che finiranno per ledere l’animo dei soggetti coinvolti, “colpevoli” di essere diversi e per questo essi stessi responsabili della derisione e conseguente emarginazione che tale presunta diversità comporterà.
Una diversità che condizionerà in modo preponderante la vita di chi è portatore di un handicap e che lo costringerà a subire un insensato giudizio. Un senso, ingiustificato e abominevole, di superiorità che diverrà la giustificazione di un sentire meschino, gretto e privo di quei sentimenti di cui l’essere umano spesso si vanta ma che troppo spesso dimentica.
Quei sentimenti che dovrebbero essere espressione naturale dei moti dell’anima si trovano ad essere invece implicitamente protagonisti in una legge atta a tutelare, con misure di tutela giudiziaria, le persone con disabilità vittime di discriminazioni.
La legge 1 marzo 2006, n.67.
Una legge necessaria ma vittima anch’essa di una triste dimenticanza. Pochi ne parlano, e viene spontaneo domandarsi quanti la conoscano.
Un atto discriminatorio implica una distinzione operata in seguito ad un giudizio, o ad una classificazione, e può esprimersi in modo diretto o indiretto. Secondo quanto contenuto nel presente decreto legislativo […]
“si ha discriminazione diretta quando, per motivi connessi alla disabilità, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata una persona non disabile in situazione analoga.
Si ha discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri mettono una persona con disabilità in una posizione di svantaggio rispetto ad altre persone.
Sono, altresì, considerati come discriminazioni le molestie, ovvero quei comportamenti indesiderati, posti in essere per motivi connessi alla disabilità, che violano la dignità e la libertà di una persona con disabilità, ovvero creino un clima di intimidazione, di umiliazione e di ostilità nei suoi confronti (Art.2).”
Nulla di controverso se ci si riferisce al concetto di discriminazione in quanto tale, sia esso diretto o indiretto, se non fosse che giuridicamente parlando risulti essere un concetto troppo ampio, che necessiterà di un discrezionalità interpretativa affidata inevitabilmente al Giudice, al fine di garantire quell’equiparazione giuridica necessaria per distinguere di volta in volta se la molestia sia oggettivamente tale da considerarsi discriminatoria.
Il Giudice, con la massima attenzione e imparzialità, attenendosi rigorosamente ai criteri normativi dovrà valutare se il singolo comportamento sia da ritenersi discriminatorio, non limitandosi al solo punto di vista di una delle due parti, ammettendo altresì come discriminatori gli atteggiamenti scaturiti dal “sentire comune”, non codificati ed applicati per consuetudine, ma non per questo da ritenersi inequivocabilmente giusti.
Una volta accertata la discriminazione il giudice può […] “ordinare la cessazione del comportamento, della condotta o dell’atto discriminatorio e pregiudizievole, adottando anche nei confronti della pubblica amministrazione, ogni altro provvedimento idoneo a rimuoverne gli effetti.”
Altresì, se richiesto, si disporrà il provvedimento al risarcimento del danno, anche non patrimoniale, se questi riferibile ad un danno afferente all’attività realizzatrice della persona.
In termini di legittimazione ad agire, se la discriminazione assumerà carattere collettivo, saranno legittimati ad intraprendere un’azione a riguardo le associazioni o gli enti di cui al comma 1, in relazione ai comportamenti discriminatori di cui ai commi 2 e 3, Art. 2, (Nozioni di discriminazione) della stessa.
Questa la tutela giuridica italiana garantita a chi disabile risulta essere vittima di discriminazione, implementata dall’articolo 28, Dgls 150, anno 2011, che nel tentativo di eliminare le piccole differenze che hanno destato perplessità in dottrina, rendendo altresì la disciplina antidiscriminatoria non unitaria, permetterà al Giudice di rifarsi alle disposizioni in esso contenute, circa le controversie in materia di discriminazione, inevitabili in un campo interpretativo così vasto quale quello della Legge 67.
Anche il diritto internazionale si è pronunciato in materia di discriminazione e nel dicembre 2006, l’Assemblea delle Nazioni Unite ha approvato la Convenzione sui diritti delle Persone con Disabilità, a garanzia del diritto all’uguaglianza e all’inclusione sociale di chi è portatore di handicap, e diretta a tutti gli Stati del Mondo.
Convenzione ratificata dal Parlamento Italiana il 24 febbraio 2009 e divenuta, conseguentemente, legge di Stato.
Una legge, la legge 67, che rivendica la sua esistenza.
Una legge che chiede di essere ricordata.
Una legge che grida la necessità di essere osservata, perchè quel volersi a tutti i costi differenziare da chi è disabile, da chi ha un handicap, come fosse un’errore, un triste scherzo della natura, quel misero sentimento di superiorità, caratteristico di chi della sua normalità ne fa’ fortezza e orgoglio, venga una volta e per tutte cancellato.
Quel “sentire comune” deve trasformarsi in un coro unanime, sensibile e attento. Un sentire che diventi partecipazione, comprensione, accompagnamento verso coloro che rivendicano il diritto alla vita.
Una vita che vuol esser vissuta davvero.
Una vita che possa dirsi indipendente anche laddove i limiti fisici impongono un attenzione maggiore, un’assistenza “diversa”.
“Diversa” perchè attenta, e non menefreghista.
“Diversa” perchè pura, e mossa da sentimenti di amore e altruismo.
“Diversa” perchè colma di quell’essere esseri umani che ci porta spesso a dimenticare ciò che di più grande la vita potrebbe offrirci: la riscoperta di noi stessi nell’altro, permettendoci di ritrovarci simili pur nella “diversità”, annullando confini, vizi e stereotipi.
Un’occasione forse per guardarci davvero tutti con occhi nuovi.