L’innata capacità dell’uomo di sapersi adattare è un fatto innegabile. Un’atteggiamento, per alcuni una vera e propria attitudine, che ci permette di modellarci ai molteplici avvenimenti che possono verificarsi nel corso della vita, e per i quali senza il necessario, quanto mai faticoso, “giusto approccio” non farebbero altro che farci soccombere.
E’ pur vero che vi sono avvenimenti ai quali però, pur possedendo uno spiccato senso di adattamento, è pressoché impossibile sapersi adattare, almeno non nel loro immediato compimento. Un’impossibilità determinata spesso da un coinvolgimento personale nell’avvenimento stesso, specie se si tratti di situazioni assai dolorose.
L’oggettività di un fatto, o il suo inevitabile determinarsi saranno viziati dal nostro sentire. Non che ciò rappresenti obbligatoriamente un fatto negativo, ma sarà altresì necessario accettare prima di tutto tale realtà, e solo successivamente apprestarsi a comprendere in che modo, e in che misura, potervisi adattare.
Vi sono situazioni ovvie, altre necessarie, altre ancora propedeutiche al generarsi di un altro avvenimento. L’accettazione diviene quindi un atto compiuto molto spesso in maniera del tutto inconsapevole, che però può facilmente trasformarsi in qualcosa di drammatico, e di difficile, se non impossibile, se animato da sentimenti negativi.
Per natura siamo esseri propensi all’accettazione del Bene, allontaniamo il dolore, e rifiutiamo nettamente ciò che comporta una perdita, ancor più se essa non significhi altro che la fine della vita di una persona cara.
Una perdita così grave si accompagna ad un dolore al quale è impossibile dare una spiegazione logica, ma che diviene esso stesso il mezzo per giungere ad accettare quanto avvenuto.
Difficile immaginare come un’anima che soffre, in un modo così atroce, e inconsolabile, debba anche farsi carico dell’elaborazione di un dolore che nel viverlo sembra toglierti qualsiasi capacità. La mente, così complessa, ancora per alcuni versi all’uomo sconosciuta, è proprio grazie alla sua innata capacità di adattamento che attiva inconsciamente questo faticoso cammino. L’umano tentativo di dare un senso ad un oltre da sempre sconosciuto.
La scienza, nel suo evolversi, ha portato alla luce un’infinità di saperi. Particolari branche che, oltre ad affrontare la sofferenza fisica, si sono addentrate nella sfera delle sofferenze psichiche.
Nella fatti specie dell’elaborazione del lutto l’approccio psicotanatologico diviene essere il primo tentativo di sostegno psicologico davanti alla morte, sia per i pazienti terminali che per i loro parenti.
Fondatrice della psicotanatologia è la psichiatra svizzera Elisabeth Kubler Ross, che, nel 1970, elaborò una vero e proprio modello a 5 fasi.
Una teoria che fin dal suo avvento rappresentò lo strumento atto a comprendere le dinamiche mentali più frequenti della persona a cui è stata diagnostica una malattia terminale, ma che nel tempo gli psicoterapeuti hanno constatato essere valido anche ogni volta che ci sia da elaborare un lutto solo affettivo e/o ideologico.
Un modello a fasi, e non a stadi, che possono quindi alternarsi, ripetersi nel corso del tempo, senza un ordine preciso, e con diversa intensità, in quanto l’universo emozionale di ogni essere umano non è definibile secondo un preciso schema.
Il processo di accettazione inizia con una prima fase di negazione, un totale rifiuto della realtà. La prima chiara espressione dell’immediato attivarsi di un meccanismo di difesa. Segue la fase della rabbia dove si avrà la manifestazione di emozioni forti, quali appunto la rabbia, così come la paura. Una fase critica, che potrà vedere il manifestarsi di una richiesta di aiuto, o di contro di una totale chiusura in sè.
La persona inevitabilmente ad un certo punto attuerà con se stesso, e con coloro che lo circondano, una sorta di patteggiamento che verrà a configurarsi con quella che è stata definita fase di contrattazione.
In questo particolare momento si potrà avrà la massima espressione di sentimenti quali speranza e fede, a seconda dei valori personali, che porteranno il soggetto a cercare di riprendere il controllo della propria vita.
Di contro, la consapevolezza delle perdite subite, o che si verificheranno con il passare del tempo, porteranno a vivere quella che è stata definita fase della depressione, che si distingue in depressione reattiva e depressione preparatoria.
La depressione reattiva è conseguente alla presa di coscienza rispetto a quanto andato perso, sia esso concernente la sfera dell’identità personale, fisica e morale, il proprio potere decisionale e le proprie relazioni sociali. La depressione preparatoria, invece, ha un aspetto predittivo circa le perdite che si stanno per subire.
Si delinea così un’iniziale presa di coscienza della realtà, che diverrà vera e propria consapevolezza una volta giunti alla fase di accettazione. Accettazione che, a dispetto del credo di ognuno, segnerà in modo imprescindibile un nuovo tipo di inizio, a prescindere dall’origine del dolore vissuto, e in tutte le sue fasi sperimentato.
Questo ciò che la scienza ci insegna. La spiegazione logica che chiunque sperimenti tali avvenimenti è incapace di trovare.
Quel senso al quale vorremmo disperatamente aggrapparci per trovare una via d’uscita, a volte, semplicemente, per riuscire a sopravvivere ad una perdita che diverrà parte di un tutto che, pur continuando ad appartenerci in quanto normale prosecuzione del nostro vivere, non sarà mai più come prima. Una realtà che ti porterà a crescere, obbligandoti a scavare negli angoli più reconditi del tuo animo, per non rimanere intrappolato in quella spirale di dolore generata dal quel mondo, l’aldilà, per noi ignoto, e a volte così spaventoso, che il solo considerarlo un’evenienza incute paura e sgomento.
Ma se tale perdita, se questo sconcertante dolore si genererà da tutt’altro tipo di perdita, che nulla a che fare con la morte, ma che sarà invece una presa di coscienza, quel tentativo di accettazione volto a riconoscere una condizione totalmente inaspettata, ma ugualmente inevitabile e immutabile, quale una malattia cronica degenerativa, quali meccanismi, ed ancora con quali sentimenti ti ritroverai ad affrontare una verità così agghiacciante?
Un interrogativo carico di risvolti la cui analisi, in linea generale, porterebbe a dover contemplare molteplici implicazioni, che vedrebbero scontrarsi il freddo raziocinio al sentire consolatorio del credo, proprio di ogni essere umano.
Un credo al quale la scienza non riesce a dare un nome, se non nell’espressione di fede che ciascuno, in piena libertà, decide di professare.
Ebbene, la convinzione di un disegno più grande, l’idea di un tempo relativamente relativo, da vivere in un’eterno qui ed ora, il credere di potersi fare infinito semplicemente aspirando ad un Bene Superiore, il silenzio al quale mi sono affidata quando la realtà era sprovvista di quelle risposte di cui avevo disperato bisogno, una realtà ancor oggi manchevole, l’amore in cui ho creduto e dal quale mi sono fatta scaldare, quando il freddo della verità stringeva la mia anima in una morsa gelata, il dolore negato, provato, urlato e infine accolto, nient’altro che il mio Credo, mi hanno portata ad avere un’unica ferma risposta.
Una risposta alla quale non sarei mai giunta se non fossi stata disposta ad accettare.
Una risposta davanti alla quale oggi posso alzare lo sguardo, e gridare al mondo: “Sono Malata, ma sono Viva!”.