Sono un tipo che affronta le cose in silenzio. Immagino la scena di Valeria che parla per raccontare un pensiero, una sensazione, o qualsiasi cosa possa essere considerata espressione, ed è lontanissimo da quello che si vede nei film. Tutto somiglia più alle bimbette di “uomini&donne” che con labbro tremante dichiarano di non sopportare più la situazione, quindi si alzano e vanno via.
Purtroppo la mia disabilità non me lo permette, di alzarmi e andare via intendo, potrei alzarmi ma sono troppo lenta, lascerei agli altri il tempo di rendersi conto e continuare a parlare, quando invece vorrei solo scomparire.
Da quando i miei muscoli hanno cominciato ad indebolirsi il silenzio non è più un caldo riparo ma una fredda grotta.
All’inizio mi ci rifugiavo e sopravvivevo pensando che fosse il modo migliore di vivere. Mi andava a genio anche non esistere. A pensarci bene, soffrivo quando gli altri non si accorgevano di me, ma dopo riuscivo, incomprensibilmente, a trovare i lati positivi e in quella ipotetica inesistenza mi ci crogiolavo.
Ho amato ancora di più quest’idea quando andare in giro per strada ha cominciato a richiedere preparazione. Quella necessaria a far si che ogni sguardo non mi scavasse dentro e lasciasse pezzi di vergogna qua e là nel mio copro e sopra la mia anima.
Era successo qualcosa, e quel qualcosa aveva deciso che non doveva più andare come stava andando. La vita ha preso una direzione diversa. Non so quale, perché fino a quando non è cambiata credo di non averci neanche mai fatto caso. Mi rinchiudevo in un’ inesistenza che riguardava tutto, anche i miei passi. Di sogni ne avevo, ma ero così inesistente da non prestare loro attenzione. Li ho lasciati soli, ed insieme a loro, ho lasciato sola me.
Quando ho ricominciato a guardarli era troppo tardi. Oggi quel “troppo tardi” viaggia nella mia testa giorno e notte. Ho scelto di non doverlo dire mai più. Di non dovermi più trovare nella situazione di dover sentire me stessa ripetere: “Vale, fermati, ormai non puoi più farlo”.
Non l’ho accettato neanche quando l’istruttore in piscina mi disse che non potevo andare in vasca grande con gli altri perché sarebbe stato troppo faticoso per i miei muscoli. Così, sono andata lo stesso. Aveva ragione, la mia prestazione non è durata neanche mezz’ora. Mi sono ritrovata in uno spazio piccolo, in mezzo a persone che a differenza mia erano in grado di fare quello che si doveva e che per puro egocentrismo lo facevano senza avere cura di chi non riusciva. Orribile.
Uscita dalla vasca i “te l’avevo detto!” sono piovuti come grandine, ma io mi sentivo soddisfatta, perché per la prima volta avevo fatto qualcosa senza che le paure degli altri mi fermassero.
Così ho capito di aver iniziato ad esistere quando la malattia ha iniziato a manifestarsi. E’ stato come se mi avesse nuovamente partorito. Ha partorito me, piena di ricordi ma comunque nuova. Un foglio, da una parte già scritto e d’altra perfettamente bianco.
Il silenzio è diventato una prigione perché la mia inesistenza lo è diventata. Adesso la perdita di parti di me mi porta a fondo e poco dopo mi restituisce al mondo. La stessa cosa che all’inizio di tutto mi rinchiudeva, ora mi costringe ad esistere e prima che per gli altri, per me stessa.
La mia unicità m’impone il centro nel quale mi pone e dentro questo finalmente esisto.